L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità è una sfida ancora aperta in Italia, tra obblighi normativi disattesi, cultura aziendale in ritardo e opportunità spesso sprecate
di Emilia Blanchetti, senior consultant Amapola
In Italia, parlare di disabilità e lavoro significa affrontare una sfida ancora aperta, che tocca non solo i diritti individuali, ma la qualità complessiva del nostro modello sociale e produttivo. La Legge n. 68 del 1999 ha introdotto l’obbligo di assunzione per le aziende con più di 14 dipendenti, riformato poi nel 2015 dal Decreto Legislativo 151, che ha esteso l’obbligo anche alle imprese con 15-35 dipendenti, a prescindere da nuove assunzioni. Eppure, a distanza di oltre vent’anni, i risultati sono ancora parziali.
Secondo gli ultimi dati Istat, solo il 33,5% delle persone con disabilità nella fascia d’età lavorativa è occupato, contro il 60,2% della popolazione senza limitazioni. Il problema non riguarda solo l’accesso al lavoro, ma la qualità delle opportunità offerte: spesso si tratta di impieghi precari, poco valorizzanti, lontani da un’idea di realizzazione professionale. Eppure, l’inclusione lavorativa non è una concessione. È un investimento. Significa attingere a un bacino di competenze e talenti oggi sottoutilizzati, favorire l’autonomia economica delle persone, ridurre la dipendenza da sussidi e generare benefici per l’intero sistema. Uno studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro stima che, aumentando del 10% il tasso di occupazione delle persone con disabilità, si potrebbero generare fino a 2 miliardi di euro in benefici economici tra minori costi sociali e maggiori entrate fiscali.
Il 28 giugno 2025 entrerà inoltre in vigore l’European Accessibility Act, una direttiva che impone requisiti stringenti di accessibilità per prodotti e servizi digitali. Per le aziende, non sarà più possibile progettare piattaforme, e-commerce o servizi pubblici ignorando le esigenze delle persone con disabilità. Un passo avanti che, se ben interpretato, può diventare un’occasione per innovare e raggiungere nuovi pubblici.
Ma il nodo resta culturale. Come recentemente ha scritto Marco Minghetti su Il Sole 24 Ore, serve un cambio di paradigma: non adattare le persone a un’organizzazione rigida, ma ripensare il lavoro a partire dai bisogni e dalle potenzialità di ciascuno. In quest’ottica, la figura del disability manager diventa cruciale: non solo per la gestione amministrativa dell’obbligo, ma come ponte tra cultura aziendale e inclusione.
Questa rivoluzione, però, non si fa senza una spinta collettiva. Esiste oggi un rischio reale di arretramento. Alcune proposte politiche vorrebbero depo-tenziare l’obbligo di assunzione per le categorie protette, riportando l’Italia indietro di decenni. Fortunatamente il nostro sistema ha sviluppato degli “anticorpi”, costruiti nel tempo da una rete di imprese sociali, fondazioni e associazioni che lavorano ogni giorno per rendere l’inclusione una pratica quotidiana e sostenibile.
A questa visione si affianca una riflessione più sottile e attuale: quella sulla “diversità di successo”. In un recente articolo su Il Post, Fabrizio Acanfora ha analizzato il modo in cui personaggi come Elon Musk e Kanye West abbiano usato la diagnosi di autismo o neurodivergenza come un tratto identitario distintivo, quasi uno strumento di differenziazione creativa. Ma questa narrazione funziona solo quando a raccontarla sono uomini ricchi, potenti, già celebrati. Per la maggior parte delle persone neurodivergenti, la realtà è fatta di ostacoli quotidiani, mancanza di supporto e stigma. Se il riconoscimento della diversità neurocognitiva è importante, lo è a maggior ragione quando riguarda chi non ha una piattaforma da cui farsi ascoltare. Ed è proprio in contesti lavorativi inclusivi che queste potenzialità possono emergere e trasformarsi in valore, senza sensazionalismi.
Un modello possibile esiste già. Lo dimostrano tante esperienze nate in questi anni, spesso dal basso, che hanno saputo coniugare professionalità, cura e impatto. È il caso, ad esempio, del modello di innovazione sociale Ability Garden, una realtà che accompagna le imprese in percorsi concreti di inclusione lavorativa grazie ad un programma di orientamento vocazionale, dedicato a giovani con disabilità per agevolare l’emersione delle loro abilità, delle attitudini e anche delle ambizioni. Tutto per favorire il match tra la risorsa e la professione idonea. «L’inclusione è pur sempre una sfida, pertanto ha ancora purtroppo dello “straordinario”», spiega Serena Cecconi, fondatrice e Ceo di Ability Garden. «Le aziende oggi non hanno gli strumenti né il tempo per arrivare con un colloquio e un CV al potenziale della persona e riconoscerne il talento. Il tempo è un bene raro per il profit che giustamente opera per obiettivi e performance e dove spesso la Sostenibilità Sociale, la DE&I hanno politiche e linee guida, ma scarseggiano di progetti concreti e misurabili».
Ability Garden è una sorta di incubatore, sostenuto e adottato da importanti aziende come Bvlgari, Fincantieri, Aeroporti di Roma, Ford Italia, Enel, solo per citarne alcune. «Abbiamo un protocollo d’intesa con l’Università Luiss, che ci ospita, perché il contesto è importante e l’università è sicuramente un ambiente stimolante, dinamico che favorisce la motivazione in chi ha vissuto sempre come una carenza la propria diversità». «Ability Garden ha cicli semestrali dove accoglie gruppi di ragazze e ragazzi con i quali lavoriamo per poi accompagnarli nel training e se richiesto nel tirocinio extracurriculare, un vero e proprio inserimento assistito in azienda», prosegue Serena Cecconi. «Negli ultimi 6 mesi abbiamo inserito tre giovani in E-distribuzione (Gruppo Enel). Una delle nostre ragazze, ad esempio, durante il percorso Ability Garden ha dimostrato una buona capacità analitica e attentiva al punto che la abbiamo presentata in E-distribuzione ed è stata assunta, dopo il training on the job, al dipartimento Macro Area Centro dove svolge un’attività di reporting e monitoraggio».
Oltre a Enel ci sono altre realtà che hanno accolto questo modello. Una su tutte: Ford Italia. «Crediamo fortemente che la collaborazione con Ability Garden sia un investimento nel futuro e una preziosa opportunità, per crescere come persone e come professionisti, insieme», racconta Fabrizio Faltoni, amministratore delegato di Ford Italia – La strada verso l’inclusione non è sempre dritta e facile, ma è con determinazione e passione che vogliamo continuare a lavorare per promuoverla appieno, dentro e fuori i nostri uffici».
Anche Bvlgari ha adottato questo modello innovativo. «La decisione di lavorare con Ability Garden nasce dalla volontà di rendere il nostro ambiente di lavoro ancora più inclusivo, integrando persone con disabilità nel nostro team», conferma Rossella Asaro, HR Development & Talent Director at Bvlgari. «Grazie al modello proposto, che consente di combinare velocemente e positivamente i talenti e le capacità dei ragazzi con le esigenze delle aziende, non solo integriamo competenze preziose nei nostri team, ma promuoviamo attivamente una cultura di inclusione e valorizzazione delle diversità, coinvolgendo i nostri colleghi nei percorsi formativi dei ragazzi di Ability Garden».
L’inclusione lavorativa non è un’eccezione da celebrare, ma un diritto e un investimento per il futuro. Modelli come quello di Ability Garden dimostrano che è possibile accompagnare le persone e le imprese verso percorsi professionali autentici e duraturi. In tutta Italia esistono reti e progetti che uniscono competenze, cura e visione, mostrando che un mercato del lavoro più giusto e accessibile è non solo auspicabile, ma già in movimento.